Pubblicato da comitatonogelmini su 25 novembre 2013
Insegno da 22 anni nelle scuole superiori. Ho avuto la fortuna di incontrare tante persone che mi hanno aiutata a crescere come insegnante. Fra queste, sicuramente devo annoverare alcuni presidi, uno in particolare, che mi hanno aiutata a comprendere il senso profondo del mio mestiere e il valore della relazione didattica. Con loro mi sono spesso scontrata, talvolta in modo duro. Ma quella dialettica serrata aveva una sua ragion d’essere, visto che si condivideva l’idea che il confronto ci avrebbe portato ad agire nel migliore dei modi per un obiettivo comune: fare una buona scuola e occuparci del benessere degli alunni e di tutta la comunità educante.
La sensazione più evidente che provo oggi camminando nei corridoi della mia scuola è di un luogo senza parole. L’afasia è figlia della rassegnazione prodotta da anni e anni di riforme, provvedimenti, annunci, minacce e tagli che hanno indotto nei docenti, negli studenti e nei genitori la netta sensazione che qualunque decisione sia già stata presa prima ed indipendentemente dal loro parere.
Non è una sensazione piacevole, perché fa sentire inutili, disarmati, e crea in ciascuno la tensione tipica di chi non ha nulla da perdere, perché ha già perso tutto e il massimo che può fare è tirare avanti amareggiato e deluso. Insomma, non esattamente il clima ideale per un luogo d’apprendimento.
E’ paradossale che a fronte di una corsa all’oggettività, si lasci tanto spazio all’arbitrio: arbitrio dell’InValSi, arbitrio del ministero, arbitrio dei dirigenti. Ma se noi ci comportassimo allo stesso modo in classe coi nostri studenti, che cosa ci direbbero?
In questa situazione gli organi collegiali, che dovrebbero essere garanzia di una dialettica democratica all’interno delle nostre scuole, sono ovviamente in una crisi drammatica. Studenti, docenti e genitori non possono che constatare quotidianamente che ormai le scelte sono state già fatte altrove e le votazioni o i pareri richiesti sono assolutamente inutili ai fini di un possibile cambiamento. Ciò che resta dei decreti delegati è solo un simulacro della democrazia, un esercizio ipocrita che vorrebbe rendere tutti complici di un disastro annunciato, la crisi della scuola pubblica italiana.
I dirigenti scolastici portano le questioni in collegio docenti e chiedono di votarle. Ma il voto è evidentemente e soltanto una pura formalità: a fronte di un qualsiasi guizzo d’orgoglio, la risposta è che la scuola è obbligata a fare certe cose e seguire certe direttive. Allora perché votare? Perché avvallare con la mano alzata decisioni prese altrove contro le quali non è possibile agire alcuna reale autonomia di scelta?
Lo stesso accade nei consigli d’istituto, dove i rappresentanti eletti da studenti, docenti e genitori si ritrovano a prendere atto di decisioni calate dall’alto, presentate come ineluttabili, imposte d’arbitrio talora giocando sulla mancanza di conoscenza delle normative in continuo ed inarrestabile cambiamento, talora sullo spauracchio del commissariamento, che farebbe finire la scuola su tutti i giornali, producendo cattiva pubblicità.
Ci si sente così impotenti di fronte a questioni che stanno snaturando la scuola: i test InValSi, i BES, la dematerializzazione con il registro elettronico, il dimensionamento degli edifici scolastici, tanto per fare qualche esempio, sono imposizioni alle quali non abbiamo modo di opporci, neppure se si dimostra palesemente che producono danni irreversibili alla qualità della scuola. Insomma, bisogna obbedire. E il dirigente si fa portavoce di questa necessità. Credere, obbedire, combattere: in che cosa non si sa, di volta in volta ce lo diranno e a noi semplicemente converrà adeguarci, altrimenti…
Altrimenti cosa può accaderci? Non lo sappiamo. In questa atmosfera kafkiana, la legge non c’è nella sua dimensione equa e oggettiva, esiste piuttosto l’arbitrio, la discrezionalità nell’interpretare il groviglio di norme che la creatività ministeriale produce senza sosta, spesso in contrasto le une con le altre, tanto per non farci annoiare mai e lasciarci nel dubbio sempre di più.
I contenziosi tra docenti e dirigenti sono un esempio eclatante di quanto questa situazione sia voluta: i dirigenti sono difesi dall’avvocatura di Stato, i docenti devono invece pagarsi un legale che li accompagni all’udienza in tribunale. I sindacati sono paralizzati dalla stessa afasia, aggravata dal fatto che si ritrovano spesso a dover rappresentare le due controparti contemporaneamente. Ma si è mai visto un Marchionne iscritto alla Fiom come i suoi operai?
Ed è veramente triste realizzare quotidianamente che i dirigenti scolastici, specie quelli di nuova generazione, figli dei quiz tarati sulla scuola modello Berlinguer-Moratti-Fioroni-Gelmini-Profumo-Carrozza, più realisti del re applicano normative e circolari a prescindere. Sono insensate? Pazienza. Ipse dixit.
Vedono nei docenti e nei genitori non un sostegno prezioso, ma degli antagonisti pericolosi, che potrebbero mettere in dubbio la validità delle direttive e opporsi alla loro applicazione pedissequa e acritica, magari contrastante con lo spirito di altre norme appena applicate. L’importante è che non si accendano i riflettori su di loro dimostrandoli disobbedienti o quantomeno incapaci di imporre nella propria scuola-azienda la logica del politico di turno.
Prova ne sia che persino a fronte di semplici richieste di chiarimento al ministero sull’interpretazione autentica di normative contrastanti, quali ad esempio quelle relative alle questioni InValSi, la reazione dei dirigenti è quasi isterica, come se l’attacco fosse rivolto personalmente a loro e la richiesta di chiarimenti non fosse piuttosto da appoggiare al fine di evitare il ripetersi infinito di contenziosi che minano la convivenza, la collaborazione e il clima sereno che dovrebbe caratterizzare qualunque luogo di apprendimento, educazione e formazione.
E’ ipocrita lamentarsi della crisi della scuola italiana e poi impegnarsi in ogni modo per provocarla, privandola della democrazia. Non c’è apprendimento senza relazione e dunque se la scuola diviene un luogo senza possibilità di relazione, significa tristemente che è esclusa anche qualsiasi possibilità di apprendimento.