Pubblicato da comitatonogelmini su 18 novembre 2013
Da troppo tempo la politica scolastica sembra aver ridotto i suoi obiettivi al taglio della spesa e al rattoppo degli strappi più evidenti che si manifestano nel tessuto del sistema educativo. Il fatto è che col succedersi dei tagli e dei rattoppi riesce sempre più difficile individuare una linea coerente di sviluppo. E certo non bastano alcune manciate di perline a rimotivare chi è impegnato per far funzionare un sistema del quale si pone continuamente in dubbio la funzione sociale e il ruolo nel progresso civile ed economico del paese. Certo, a parole, chi reca la responsabilità delle scelte non lesina i riconoscimenti alla centralità della scuola o all’importanza del lavoro che in essa svolgono gli insegnanti. Ma si tratta ormai della stanca ripetizione di formule non impegnative, che non impedisce di compiere scelte che vanno in direzioni del tutto diverse. Ci troviamo oggi di fronte al paradosso di un sistema educativo sul quale si interviene sulla base di modelli interpretativi nei quali è minima la presenza proprio dell’educazione.
Si discute del funzionamento delle scuole come se il prodotto della loro attività fosse costituito da detersivi per lavastoviglie o da cuscinetti a sfere. Se ne vuole valutare la capacità d’intervento riducendo al minimo l’intervallo temporale tra le variabili indipendenti e quelle dipendenti: è come dire che si pretende di verificare nel breve periodo quali siano stati i risultati dell’educazione, ossia di un’attività che ha successo quando è in grado di indurre nei profili di chi ne fruisce cambiamenti che permangano nel tempo, e che siano a loro volta all’origine di cambiamenti ulteriori. Si fa riferimento a una cultura interpretativa presa in prestito da altri settori della vita sociale (per esempio, dall’organizzazione delle aziende), o sviluppata nell’ambito di progetti o attività internazionali dei quali si è fatto poco o nulla per capire i presupposti o i metodi di attuazione (penso alle rilevazioni periodiche dell’Ocse). La ricerca educativa di base è ridotta al lumicino. L’innovazione è fatta consistere nell’esibizione di trovate tecnologiche, ovvero nell’amplificazione ideologica dell’effimero: si direbbe che non ha tanto importanza l’apporto che la tecnologia è in grado di fornire alla soluzione di problemi educativi, quanto l’individuazione di modi attraverso cui fruire, soprattutto in campo didattico, delle risorse disponibili sul mercato (con evidente soddisfazione dei venditori).
Il quadro non migliora se dalle interpretazioni generali che investono il sistema si passa a considerare aspetti sensibili del suo funzionamento, a cominciare da quello del reclutamento e del sostegno professionale degli insegnanti. Alla fine degli anni novanta è stata introdotta una normativa per la formazione professionale iniziale del personale della scuola che prevedeva la creazione di un corso di laurea per gli insegnanti della scuola per l’infanzia e di quella primaria e di una scuola di specializzazione per gli insegnanti di scuola secondaria. Premetto che fui tra gli oppositori di quella normativa, che sanciva una sorta di protettorato delle università sulle scuole. Ma si sarebbe, quanto meno, potuto desiderare che all’attuazione delle nuove norme si accompagnasse un’elaborazione culturale in grado di dar senso a ciò che si stava facendo. Purtroppo, le università hanno interpretato il tutto nel modo più baronale, per disporre di un nuovo scenario in cui dedicarsi alla moltiplicazione dei pani e dei pesci (ovvero, fuor di metafora, alla moltiplicazione degli insegnamenti, alla proliferazione dei contratti di collaborazione eccetera). Nel frattempo, le regole di sistema sono state più volte modificate, ma non è stato fatto alcun serio tentativo per far corrispondere le procedure del reclutamento alle diverse conformazioni che si sono volute imprimere al sistema scolastico. È rimasta invariata solo la presunzione che un sistema universitario povero di competenze educative (se ne avesse, potrebbe funzionare un po’ meglio) sia in grado di impalcarsi a formatore del personale delle scuole.
Bisogna chiedersi che senso abbia continuare a trascinarsi fra tagli e rattoppi. Meglio sarebbe riconoscere che una fase dello sviluppo del sistema scolastico si è esaurita e che occorre avviarne una nuova, capace di interpretare le condizioni di vita e la cultura della società contemporanea. La fase che si è conclusa ha consentito di introdurre cambiamenti fondamentali nel profilo della popolazione italiana che, prevalentemente analfabeta nel 1861 (l’anno dell’unità nazionale), è giunta a fruire alla fine del Novecento di una scolarizzazione modale che comprendeva l’intero ciclo secondario. La crisi di quel modello di sviluppo si è manifestata proprio mentre se ne conseguivano gli intenti più ambiziosi. Veniva, infatti, progressivamente attenuandosi la spinta all’istruzione, con ciò che ne derivava in termini di accettazione del compito di apprendimento da parte degli allievi, per il diminuire delle attese sociali sui benefici che se ne sarebbero potuti trarre nel corso della vita. Sarebbe stato necessario avviare un ripensamento sui modelli e sui fini dell’educazione scolastica, tenendo anche conto delle riflessioni che nel frattempo si stavano sviluppando in altri paesi di cultura europea. Invece, si è preferito far ricadere sulle scuole la responsabilità delle contraddizioni che si stavano manifestando, lamentandone i limiti organizzativi e le angustie culturali. Gli atteggiamenti antiscolastici che si sono venuti progressivamente manifestando dalla fine del Novecento sono serviti a giustificare le politiche centrate sui tagli e i rattoppi: un sistema che produceva risultati scadenti, come quelli posti in evidenza dalle rilevazioni comparative (che peraltro sono state assunte senza alcun serio tentativo di interpretazione e sono state alla base di inferenze rivelatrici solo dell’incultura di troppi sedicenti esperti annidati nei centri di potere nazionali e locali), si sarebbe dovuto risanare tramite una gestione virtuosa delle risorse. La capacità di attrazione che il sistema scolastico aveva perso in termini di aspettative sociali avrebbe dovuto essere recuperata premiando le qualità personali di intelligenza e volontà (la cosiddetta meritocrazia).
Dovrebbe ormai essere evidente che con i tagli e i rattoppi non si fa molta strada. E che una cultura di modestissimo senso comune densa di suggestioni nostalgiche (grembiulini e voti di condotta), di determinismo sociale (è la conseguenza del richiamo esasperato al merito), di una concezione del tempo educativo ricalcata su Tempi moderni (si arriva a computare i minuti per questa o quell’attività), non è adeguata a sostenere una trasformazione del sistema educativo capace di rimotivare all’apprendimento gli allievi. Occorre voltare pagina. E per farlo, bisogna elaborare una nuova cultura capace di promuovere la consapevolezza dei cambiamenti intervenuti nel compito educativo fra gli insegnanti, i genitori, la popolazione tutta. E c’è bisogno che alla definizione di un disegno alternativo concorrano quanti sono interessati a restituire alla scuola una funzione di riferimento nella vita sociale. Per cominciare, ci si dovrebbe interrogare sulle conseguenze che i cambiamenti intervenuti nella struttura della popolazione hanno avuto e hanno sull’educazione. In un secolo c’è stato un aumento di circa trent’anni della speranza di vita: quali conseguenze se ne debbono trarre per l’educazione? Oggi è sempre più evidente che in momenti determinati coesistono nella cultura educativa elementi di breve e di lungo periodo: come gestire questa differenza? Molti bambini all’inizio del loro percorso scolastico nel corso della vita saranno probabilmente impegnati in attività che al momento non esistono: è possibile un’educazione che tenga conto di realtà ancora indefinite?
Questo è solo l’inizio di un elenco che sarà bene continuare e approfondire.