Le prove Invalsi, che quest’anno verranno introdotte in tutte le seconde classi delle scuole secondarie di 2° grado, stanno suscitando un’opposizione pregiudiziale da parte di alcune sigle sindacali e di diversi collegi docenti.
Certamente il MIUR non ha agevolato dirigenti scolastici e Collegi nella predisposizione di una buona organizzazione di questo evento; soprattutto non ha destinato risorse aggiuntive al Fondo di istituto e alla formazione. Questo avrebbe quantomeno evitato contestazioni sulla mancata retribuzione del lavoro aggiuntivo e avrebbe contribuito a trasformare queste valutazioni in un’occasione di crescita professionale e di miglioramento degli apprendimenti attraverso una formazione mirata e un’adeguata attività collegiale di analisi e rielaborazione dei dati.
Ma l’opposizione che si va sviluppando in alcune scuole, ha un carattere soprattutto pregiudiziale, e spesso si basa su un’informazione parziale, deformata e poco aggiornata, fornita ad una platea di docenti che poco sa delle caratteristiche del progetto del Servizio Nazionale di Valutazione dell’Invalsi.
Demagogia e scarsa informazione favoriscono la diffusione di alcuni luoghi comuni (frutto di pregiudizio o disinformazione), che bisogna sfatare, tra i quali:
1. le prove Invalsi servono per la valutazione dei professori;
2. servono per dividere le scuole in istituti di serie A e istituti di serie B;
3. servono per togliere finanziamenti alle scuole pubbliche e dirottarli sulle private;
4. sono come i test per la patente;
5. chi ha fatto i test non conosce la scuola e gli studenti;
6. sono difficili, e servono a dimostrare che la scuola pubblica non funziona;
7. servono per modificare e indirizzare la didattica e renderla poco critica;
8. la valutazione Invalsi sostituisce la valutazione dei docenti;
9. i professori fanno già le loro corrette valutazioni, conoscendo la situazione degli studenti;
10. la prove Invalsi violano la privacy degli studenti e delle famiglie.
Al contrario, non si mette in evidenza uno degli elementi fondamentali delle prove e dell’analisi dei risultati, vale a dire la determinazione del cosiddetto “valore aggiunto” delle scuole, cioè la valutazione della capacità o meno delle singole scuole di incidere sulle condizioni di partenza, consentendo agli studenti di mitigare le eventuali condizioni sfavorevoli dovute al contesto sociale, economico, famigliare ecc..
L’ADi ritiene:
1. che l’avvio di un sistema di valutazione degli apprendimenti sia una necessità per progettare e realizzare le iniziative di miglioramento;
2. che un sistema di valutazione degli apprendimenti non è valido “per sempre”, ma deve essere adeguato progressivamente, e ciò può essere fatto solo sperimentandolo;
3. che un sistema standardizzato di valutazione degli apprendimenti rientra anche nel dettato costituzionale, che vuole garantire a tutto il territorio nazionale i “livelli essenziali delle prestazioni”;
4. che i risultati dei test somministrati a tutti gli studenti, rielaborati dall’Invalsi (con la garanzia dell’anonimato) e riconsegnati ad ogni scuola, insieme ai risultati delle “classi campione”, permetteranno ad ogni collegio dei docenti un esame approfondito (anche a livello comparativo) della situazione delle singole classi, almeno in alcune delle competenze base (per quest’anno la lettura e la matematica).
La prove Invalsi quindi non vanno né mitizzate né demonizzate, ma utilizzate come strumenti di miglioramento dell’attività dei docenti e della loro professionalità, passando da un insegnamento basato su un’interpretazione soggettiva dei risultati a una “conoscenza informata” basata su dati trasparenti e comparabili.
Mi piace concludere con le parole del grande sociologo francese François Dubet:
“Nei docenti si è prodotta una terribile alleanza fra radicalismo politico e conservatorismo pedagogico: più sono trotskisti più sono conservatori. Così, anche se non lo dichiarano, rifiutano di fatto l’avvento della scuola di massa e di quasi tutte le riforme.”
Una volta tanto, cerchiamo di non buttare via il bambino con l’acqua sporca!
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