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23 marzo 2011 — pagina 15 sezione: Altre
Dopo l’intervento di Berlusconi sulla scuola è seguito, ed è in corso nel Paese, un acceso dibattito nel quale alcuni politici di orientamento cattolico, anche appartenenti a schieramenti contrapposti, parlano di scuola libera ogni qual volta si riferiscono, ed intendono accentuarne la peculiarità, alla scuola non statale. C’è da chiedersi se con l’uso del termine «libera» associato alla scuola confessionale, perché tale è prevalentemente la scuola privata in Italia, intendano riferirsi alla libertà nella scuola o alla libertà della scuola.
Si tratta di una questione non secondaria, poiché sono forme di libertà riferite allo stesso soggetto, la scuola, che assumono significato diverso e che, nel dibattito politico, a seconda della interpretazione e della prevalenza che si vuole assegnare all’una o all’altra, possono indurre a proposte e soluzioni pratiche molto differenti. Su tale questione che ha per tema il concetto di libertà, scrisse con la consueta chiarezza e profondità, Norberto Bobbio in una memorabile relazione che presentò nel convegno organizzato dalla Federazione Nazionale degli Insegnanti della Scuola Media (Fnism) nell’ormai lontano 1985, da cui ho tratto ampia ispirazione nel redigere queste breve intervento.
Scriveva Bobbio: «Libertà nella scuola vuol dire che all’interno di quella particolare istituzione che è la scuola i due soggetti del rapporto educativo, gli insegnanti e gli allievi, non debbano esser obbligati, o peggio costretti ad abbracciare una credenza, una dottrina filosofica, un’ideologia esclusiva ed imposta come esclusiva, ma hanno il diritto di dare e rispettivamente di ricevere, diverse credenze, diverse filosofie, diverse ideologie, di darle e di riceverle criticamente.......Scuola libera allora vuol dire scuola che garantisce la libertà rispettivamente d’insegnamento e di apprendimento, e garantendo queste due libertà che si integrano a vicenda, favorisce la formazione dello spirito critico, di una mentalità critica, di un atteggiamento critico».
Libertà della scuola è invece quella tutelata dal comma 3 dell’art. 33 della nostra Costituzione, che consente ad enti, religiosi o privati di istituire scuole, rendendo così effettivo il diritto delle famiglie di scegliere per i propri figli una scuola non statale più rispondente ai propri ideali.
La libertà della scuola tuttavia non include necessariamente la libertà nella scuola, nel senso che in una scuola privata, a chi insegna è fatto obbligo di professare una determinata fede religiosa o di uniformare il proprio insegnamento ad una determinata ideologia politica. Quest’ultima eventualità, per ora limitata, non è puramente teorica, vista l’invadenza di certa politica localistica che mira ad orientare la scuola, pretendendo revisioni storiche e linguistiche funzionali ai propri scopi, addirittura alzando i propri vessilli sugli edifici scolastici.
Ci troviamo di fronte ad un paradosso di cui sembra che il legislatore costituente fosse perfettamente consapevole: lo Stato che evidentemente considera preminente la libertà nella scuola e di conseguenza riconosce valore costituzionale alla libertà d’insegnamento, consente comunque anche a chi questa libertà non la rispetta del tutto di istituire delle scuole. Lo Stato democratico e di diritto fin dal suo sorgere rinuncia al proprio monopolio sull’istruzione.
La supremazia della scuola pubblica, non impedisce l’iniziativa privata, sempre che questa avvenga nel rispetto di diritti ed obblighi fissati per legge che garantiscono armonizzazione e corrispondenza della scuola privata con il servizio scolastico pubblico. Ciò vuol anche dire che il privato deve trovare le risorse che gli consentano di beneficiare di questa libertà. Lo stabilisce, una volta tanto con estrema chiarezza, l’art. 33 della Costituzione. Una chiarezza che non risulta sufficiente per gli Enti religiosi che continuano a chiede finanziamenti statali consistenti per le proprie scuole. Tale pretesa si fonda sostanzialmente su due ragioni: la prima parte dall’idea base che la scuola privata svolge comunque un servizio pubblico perché ad essa può liberamente accedere chiunque. Non tenendo conto in tal modo che la frequenza di una scuola privata comporta il pagamento di una retta che non tutti possono sostenere. Ammesso poi che tale ostacolo economico possa essere superato attraverso il totale contributo dello Stato, resta comunque la forte discriminante di carattere religioso per chi non è di fede cattolica. La seconda ragione si fonda sul fatto che la scuola privata copre una parte del servizio pubblico che lo Stato sarebbe comunque tenuto a garantire con maggiori oneri rispetto a quelli sostenuti con gli ordinari finanziamenti alle scuole private. Quest’ultima considerazione, secondo me, è molto più fondata. Bisogna però giungere a scelte pratiche e politiche diverse a seconda delle varie situazioni territoriali senza necessariamente cedere sul piano dei principi costituzionali. Cerco di spiegarmi, avendo in mente situazioni concrete conosciute nel corso della mia diretta esperienza professionale di dirigente scolastico.
Se in un territorio vi è un sistema misto d’istruzione, costituito cioè da scuole statali e scuole private, in cui queste ultime contribuiscono in maniera determinante a coprire la domanda d’istruzione della popolazione, non si comprende perché lo Stato, in questo caso inadempiente, non debba finanziare in maniera adeguata le scuole private che gli fanno risparmiare parecchio denaro. In una tale situazione il competente Ministero della Pubblica Istruzione dovrebbe però pretendere di esercitare un controllo più vigile non solo per quanto attiene gli aspetti strettamente legali, ma anche per ciò che riguarda i livelli d’istruzione erogata dalle scuole private che non dovrebbero essere mai al di sotto degli standard garantiti dalla scuola pubblica. Non solo: lo Stato dovrebbe vigilare che l’accesso a queste scuole sia effettivamente libero, che non vi siano preclusioni ad esempio verso gli studenti di origine straniera, qualunque sia la loro provenienza, appartenenza religiosa, competenza linguistica e livello d’istruzione.
Naturalmente questa «ingerenza» limiterebbe in qualche modo gli spazi di libertà della scuola privata senza però alterarne l’orientamento ideale, ma questo sarebbe il giusto prezzo da pagare in cambio di un adeguato sostegno finanziario.
Se invece in un territorio vi è un sistema misto d’istruzione in cui le scuole private sono in aperta competizione con quelle pubbliche, è giusto che lo Stato indirizzi le proprie risorse esclusivamente verso le scuole statali, spesso perdenti rispetto alle private perché prive di edifici sicuri e funzionali, di palestre, attrezzature e strumentazioni adeguate. Risorse di cui le private a volte godono ampiamente e di cui ne fanno buon uso proponendo un ampliamento dell’offerta formativa che consente all’utenza di disporre di orari di permanenza a scuola più lunghi rispetto a quelli offerti delle scuole statali. E si sa quanto questa opportunità influenzi in modo determinante la scelta della scuola da parte delle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano.
Lo Stato dovrebbe in definitiva mettere le proprie scuole in condizioni di competere con quelle private almeno sul piano delle risorse materiali, poiché sul piano degli apprendimenti le scuole statali in generale ottengo risultati migliori di quelle private. Stando infatti agli ultimi dati dell’indagine Pisa svolta in vari paesi del mondo dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sulle competenze in Lettura, Matematica e Scienze dei quindicenni, la scuola italiana otterrebbe una posizione più dignitosa se non vi fossero i deludenti risultati delle scuole private che la spingono in fondo alle classifica internazionale.
Sono dati che prioritariamente dovrebbero indurre le famiglie a prestare attenzione nella scelta della scuola per i propri figli, più che agli aspetti di contorno, alla sostanza, cioè alla qualità dell’istruzione, giacché non vi è completezza nella loro educazione senza l’acquisizione da parte degli studenti di quelle competenze che gli consentono di avere fiducia in se stessi, di vivere in armonia con gli altri e di sapersi orientare nella complessità del mondo moderno.
Dovrebbero infine, i risultati Ocse-Pisa, sollecitare i nostri governanti a dotare l’Amministrazione pubblica di un sistema di valutazione della qualità del servizio scolastico che consenta di premiare finanziariamente le scuole private meritevoli e, nel contempo, di scoraggiare chi ottiene risultati scadenti. In sostanza lo Stato dovrebbe avviare un sistema premiale che tiene esclusivamente conto dei risultati e degli interessi dei cittadini e non di altre ragioni di opportunità politica che nulla hanno a che vedere con la scuola.
(*Dirigente scolastico del Circolo Didattico di Villorba) -
Francesco Caminiti *
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